Il primo quesito, "abrogazione del Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi", riguarda l'abolizione della legge Severino, cioè l'eliminazione delle norme che impediscono la partecipazione alle competizioni elettorali per il Parlamento europeo e italiano e alle elezioni regionali, provinciali e comunali di chi è stato condannato in via definitiva per mafia, terrorismo, corruzione e altri gravi reati. La legge è stata approvata in via definitiva il 31 dicembre 2012 e prende il nome da Paola Severino, ministra della Giustizia nel governo Monti. Il deputato, il senatore o il parlamentare europeo, condannati in via definitiva per reati come mafia o terrorismo, per reati contro la pubblica amministrazione (peculato, corruzione o concussione), e per delitti non colposi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore a quattro anni, decadono dalla carica o non possono essere candidati (per un periodo non inferiore a sei anni), In base alla legge poi per gli amministratori locali, per gli stessi casi sopra elencati, è prevista la sospensione temporanea del mandato anche in caso di condanna non definitiva, per un periodo di 18 mesi, in via automatica. Quest'ultimo punto è stato da poco giudicato legittimo dalla Corte costituzionale.
Se passasse il sì anche ai condannati in via definitiva verrebbe concesso di candidarsi o di proseguire il proprio mandato, eliminando anche il meccanismo automatico della sospensione in caso di condanna non definitiva. In caso di condanna sarebbero quindi di nuovo i giudici a decidere, caso per caso, se applicare o meno come pena accessoria anche l’interdizione dai pubblici uffici.
Il secondo referendum, "limitazione delle misure cautelari: abrogazione dell'ultimo inciso dell'art. 274, comma 1, lettera c), codice di procedura penale, in materia di misure cautelari e, segnatamente, di esigenze cautelari, nel processo penale", limita i casi in cui possono essere inflitte misure cautelari, e in particolare la carcerazione preventiva, abrogando l'ipotesi di pericolo di reiterazione dello stesso reato. In pratica l'articolo 274 del codice di procedura penale elenca i casi che giustificano l'applicazione delle misure cautelari: pericolo di fuga, inquinamento delle prove, o il pericolo che la persona "commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede", cioè appunto quando si ravvisa il pericolo di reiterazione dello stesso reato.
Il quesito referendario interviene proprio su questo: se passasse il ‘Sì' un giudice non potrebbe più disporre la custodia cautelare in carcere per i reati meno gravi, ma solo di fronte al rischio concreto che l'indagato possa commettere reati con l'uso di armi, con la criminalità organizzata o contro l’ordine costituzionale, e non per reati minori come spaccio aggravato o corruzione. Inoltre il referendum eliminerebbe anche la previsione di custodia cautelare per il solo reato di finanziamento illecito dei partiti.
Chi sostiene le ragioni del ‘Sì' è convinto che in Italia vi siano stati degli abusi e vi sia stato un ricorso sproporzionato a provvedimenti di custodia cautelare, una misura che dovrebbe invece rappresentare un'eccezione.
Il quesito, "separazione delle funzioni dei magistrati. Abrogazione delle norme in materia di ordinamento giudiziario che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati", punta ad abrogare le norme che permettono ai magistrati di passare dalla funzione requirente alla funzione giudicante, e viceversa. I primi corrispondono ai pubblici ministeri, quindi coloro che rappresentano l'accusa, mentre i secondi svolgono la funzione di giudice. I magistrati anche nel corso della carriera possono decidere di cambiare funzione, cambiando da giudice a pm, per un numero massimo di quattro volte.
Se vincesse il sì i due canali sarebbero due carriere distinte e incomunicabili: chi sceglierà di fare il pm o il giudice non potrà poi svolgere una funzione diversa. Prevedere due percorsi separati, da scegliere all'inizio della carriera, dicono i promotori del ‘Sì', garantirebbe maggiore equità e indipendenza dei giudici Chi è invece a favore del ‘No' sostiene che una modifica così significativa non possa essere affidata a un referendum abrogativo.
Questo quesito referendario, "partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari. Abrogazione di norme in materia di composizione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari e delle competenze dei membri laici che ne fanno parte", introdurrebbe il voto degli avvocati e dei professori universitari nei consigli giudiziari, anche per le valutazioni di professionalità dei magistrati. In pratica ogni quattro anni i magistrati ricevono una valutazione sul loro lavoro, espressa con tre possibili giudizi: ‘positiva', ‘non positiva' e ‘negativa'.
Le valutazioni vengono date dai consigli giudiziari, che sono organi a composizione mista: ne fanno parte magistrati eletti sul territorio, il presidente della Corte d'Appello e il suo procuratore generale. A questi componenti togati si aggiungono anche avvocati e professori universitari, che partecipano come membri laici.
In questo momento solo i primi sono chiamati a dare la valutazione ai magistrati, mentre i componenti laici no. Con il ‘Sì' la situazione cambierebbe, includendo nelle valutazioni anche i membri laici: in questo modo, secondo i promotori, il giudizio sull'operato dei magistrati sarebbe più oggettivo. Chi è a favore del ‘No' fa notare però che un giudice potrebbe poi trovarsi a confrontarsi in un dibattimento con un avvocato chiamato poi a valutarlo, e questo potrebbe andare a detrimento di una garanzia di indipendenza.
Quest'ultimo quesito referendario, "abrogazione di norme in materia di elezioni dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura", tocca le norme che regolano l'elezione dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura, e prevede la cancellazione della norma che stabilisce che ogni candidatura per il Csm debba essere sostenuta dalle firme di almeno 25 presentatori (con un massimo di 50). L'obiettivo è porre fine al sistema delle ‘correnti' nella magistratura: se vincesse il ‘Sì' ogni magistrato potrebbe presentare la propria candidatura in autonomia, senza necessariamente cercare l'appoggio di altri magistrati.
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